Abruzzo, Italia
Gentile, anche gentile, la selvosa e rocciosa terra d’Abruzzo, che dai suoi fondali rupestri ed arborei sprigiona una musica sommessa di carezzevole malinconia e di sacrale sanità. Questa è l’impressione che si prova in ogni angolo d’Abruzzo. ogni cosa rinnoverà quel senso di forza e di gentilezza insieme commiste, anzi compenetrate, che costituisce la melodia caratteristica di questa terra. Ci visita l’Abruzzo non può sottrarsi al fascino determinante del paesaggio, della natura. […] E quanti anche oggi conoscono la bontà dei vini abruzzesi, il profumo e lo splendore delle uve che coprono i dossi collinosi scendenti su Ortona e su tutto quel tormentato litorale teatino che è l’unico tratto capricciosamente panoramico della costa abruzzese, […]. Chi conosce il fragrante sapore della frutta che ricopre le valli che dalla Pescara al Tronto risalgono dal mare verso il Gran Sasso? E chi parlerà dei confetti di Sulmona, dei salumi di Penne, o dei liquori che a Pescara si distillano o, per uscire dalle tentazioni della gola, dei tappeti delle Valle Peligna e dele infinite lavorazioni in legno e ferro battuto che alla fine del Medioevo trovarono la massima espressione artistica nella persona di Nicola da Guardiagrele? […] Uno dei grandi dolori dei figli più evoluti d’Abruzzo è appunto che la loro terra si propone normalmente all’attenzione per lo splendore dei suoi paesaggi montani e oggi anche per l’attrattiva delle sue interminabili spiagge, e che non sia ancora sorto chi sia capace di tracciare la sagoma precisa di questa terra, ancora misteriosa, in base alle secolare, armonica abbondanza dei suoi monumenti artistici.
Ettore Paratore, 1970
Adesso che mi ci fai pensare, mi domando anch’io che cosa ho conservato di abruzzese e debbo dire, ahimè, tutto; cioè l’orgoglio di esserlo che mi riviene in gola quando meno me l’aspetto, per esempio quest’estate in Canada, parlando con alcuni abruzzesi della comunità di Montreal, gente straordinaria e fedele al ricordo della loro terra. Un orgoglio che ha le sue relative lacerazioni e ambivalenze di sentimenti verso tutto ciò che è Abruzzo. Questo dovrebbe spiegarti il mio ritardo nel risponderti; e questo ti dice che sono nato a Pescara per caso: c’era nato anche mio padre e mia madre veniva da Cappelle sul Tavo. I nonni paterni e materni anche essi del Teramano, mia madre era fiera del paese di sua madre, Montepagano, che io ho visto una sola volta di sfuggita, in automobile, come facciamo noi, poveri viaggiatori d’oggi […] Tra i dati positivi della mia eredità abruzzese metto anche la tolleranza, la pietà cristiana (nelle campagne un uomo è ancora ‘nu cristiane?), la benevolenza dell’umore, la semplicità, la franchezza nelle amicizie; e cioè quel sempre fermarmi alla prima impressione e non cambiare poi il giudizio sulle persone, accettandole come sono, riconoscendo i loro difetti come miei, anzi nei loro difetti i miei. Quel senso ospitale che è in noi, un po’ dovuto alla conformazione di una terra isolata, diciamo addirittura un’isola (nel Decamerone, Boccaccio cita una sola volta l’Abruzzo, come regione remota: «Gli è più lontano che Abruzzi»); un’isola schiacciata tra un mare esemplare e due montagne che non è possibile ignorare, monumentali e libere: se ci pensi bene, il Gran Sasso e la Majella son le nostre basiliche, che si fronteggiano in un dialogo molto riuscito e complementare... Bisogna prenderci come siamo, gente rimasta di confine (a quale stato o nazione? O, forse, a quale tempo?), con una sola morale: il lavoro. E con le nostre Madonne vestite a lutto e le sette spade dei sette dolori ben confitte nel seno. Amico, dell’Abruzzo conosco poco, quel poco che ho nel sangue.
Ennio Flaiano, 1972
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